Caosmosi e saggezza dell’ornitorinco: un orientamento dalla quarantena.

Chiudendo gli occhi e pensando alla passata quarantena vedo innanzitutto un soffitto, bianco, vuoto e segnato solo da qualche elegante ragnatela. Vuota è anche la lastra immacolata che tiene fra le mani lo scriba dalla pelle ricoperta di segni ed iscrizioni ermetiche nella fotografia “Deiscrizione” di Claudio Parmiggiani: seconda immagine emersa per descrivere questo isolamento. Sulla mente come sulla pelle dello scriba s’imprimono segni e parole che, pur veicolo di significati, risultano ermetici quando non si sa più a quale fonte credere, quale suggerimento seguire, e soprattutto quando stabilire il momento per disconnettersi dal ritmo iper-testuale del mondo. Pur rinchiusi per sfuggire alla morte (“Quando si conosce il soffitto meglio di sé stessi, questo si chiama morte.”1), non ci si è mai separati dal flusso incessante e sovrabbondante di informazioni che penetra nelle vite private (dal piacere delle visite) attraverso i portali sbaluginanti dei nostri schermi.

La giustificabile necessità di tenersi informati riguardo alla minaccia invisibile del virus, che così visibilmente influenza il mondo intero, dà il via ad un ciclo dialettico potenzialmente infinito: una produzione impressionante di articoli, opinioni, teorie, complotti, teorie per giustificare i complotti, teorie per ristrutturare complotti, complotti per deridere le teorie…

Insomma mentre il tempo delle giornate rimane vuoto e libero, bianco come un foglio bianco, fra la noia inevitabile e il lavoro a distanza, le stanze della quarantena si fanno affollate di un chiacchiericcio diffuso. Un dipanarsi di opinioni dovuto alla crisi nella post-modernità di ogni grande sistema di controllo dell’incertezza, scienza inclusa? Non si esclude. Tuttavia qui ora non si scriverà di post-verità, ma di un possibile via per vivere l’isolamento e pensare un modo d’essere compatibile con i valori mutanti2 della grande guerra al virus del ’19. Si vuole insomma condividere un concetto che permetta di ripensarsi durante un tempo cangiante, in cui l’essere connessi diviene di fatto una necessità. Questo implicherà l’introduzione del termine “Caosmosi” che lo psichiatra francese Félix Guattari utilizza per indicare l’incontro dell’individuo con il caos esterno (ma anche interno) e l’evolversi del loro reciproco adattamento3. In seguito alla vertigine prodotta dall’incontro di questo concetto una scialuppa di salvataggio proverrà dalla saggezza dell’ornitorinco, diretto ispiratore di questo articolo. Ma ciò implica in primis tuffarsi nella vita ai tempi della primavera 2020…

Emergendo dall’immersione nel web ore dopo il crepuscolo, snervati dallo scorrere delle pagine dei social, ci si ritrova magari a sognare l’utilità delle maschere chirurgiche cucite a mano dai/lle casalingh* o sul legame nascosto fra ecoterrorismo, 5g, decrescita, politiche sociali post-coronavirus ed il primo amore inconfessato del liceo… Se questa descrizione della fine di una giornata non suona così parossistica significa che l’accelerazione vertiginosa e maniacale del flusso di informazioni invade ancor più di prima i contenuti delle nostre menti, del nostro spirito, del nostro “ghost”4. Al ritmo veloce, troppo veloce, delle informazioni si accompagna l’angoscia di volervi tenere testa, di voler sempre essere aggiornati. Non si demonizza questa frequentazione del net, che al contrario offre la possibilità di mantenere e creare legami, nuovi ancoraggi al mondo sociale e possibilità di condivisione5. Tuttavia l’ansia di non essere abbastanza connessi, motivata da questa vitale necessità di vicinanza umana, seppure solo virtuale, è oggi ugualmente causata dal bisogno di controllare una minaccia invisibile6. Quest’ansia non è l’unica causa del nostro bisogno di informazione. Essa tuttavia emerge con più chiarezza e tensione nel nostro presente definito “semio-capitalistico”, cioè dominato dall’economia basata sullo scambio d’informazioni che avviene in rete7.

Oggi l’accumulazione di conoscenze è principalmente sottomessa a logiche economiche, possedere le più recenti e rilevanti informazioni infatti determina il successo non solo nell’ambito della speculazione finanziaria ma anche in quello politico, sociale e social. Ne è prova il cospicuo investimento di lavoro nelle bacheche dei vari network: vetrine accuratamente allestite per accrescere il valore della propria immagine virtuale. Questa corsa senza fine all’informazione riguarda sempre di più il marketing, sapere fondamentale oggi per procedere nella fruttuosa presentazione e svendita della propria credibilità di politici, giornalisti, psicologi, operatori olistici, complottisti, guru o influencer… Una dipendenza effettiva dai social network che riguarda tutti e che sicuramente contribuisce largamente a questa capitalizzazione delle informazioni. La caratteristica infinita di questa rincorsa (non c’è limite al numero di schede aperte su Chrome) è la conseguente crescita dell’angoscia nella pretesa di tenere il passo con l’ultimo aggiornamento.

Uno costante stato di tensione può dare come risultato una volontà di chiusura dell’organismo, il risveglio di un istinto di ritirata. Come nel caso della paranoia per la minaccia invisibile del Covid se la realtà ed il suo flusso di informazioni risultano incontrollabili si preferisce adottare una visione del mondo parziale ma rassicurante in cui credere cecamente e cercare una causa visibile e identificabile. In questo senso si possono comprendere la diffusione di complotti sulle cause della pandemia (forse tutte portatrici di una parte di verità) ma anche il successo dei nuovi fascismi, spinte reazionarie che forniscono dei nemici apparentemente evidenti a soggetti esausti e confusi dal turbine di informazioni discordanti che penetra nelle nostre stanze8.

La globalizzazione che avrebbe dovuto ravvicinare persone viventi in angoli opposti del globo (la prima utopia, madre di Zuckerberg) assume così tratti sinistri, divenuti terrificanti durante la pandemia di Wuhan. Ciò potrebbe da un lato indirizzare la rotta del cambiamento verso il favoreggiamento dell’economia locale, comportando a lungo termine interessanti mutamenti sociali ed ecologici9. Tuttavia questi sguardi ottimistici sul mondo post-quarantena devono tenere conto di come invece quest’incremento dell’ansia, paura del futuro già ancella del semio-capitalismo, porterà ad un maggior successo del nazionalismo razzista e xenofobo 10 e ad un più tollerato stato di emergenza e di controllo: “La somma dei sentimenti, delle conoscenze, delle esperienze, l’onere complessivo della civiltà, insomma, è divenuto così grande che c’è un pericolo generalizzato di sovreccitazione della capacità nervosa e mentale, è vero che oggi si favorisce la salute in tutti i modi; ma fondamentalmente rimane la necessità di una riduzione di quella tensione del sentimento”11. L’onere della civiltà dell’aforisma nicciano è in parte dato, soprattutto oggi, dal vortice d’informazioni guizzanti da televisioni, pc e smartphone, introdotto nelle case isolate o nei lettini chiusi per la protezione dei non infetti… Lanuginose incertezze grigie/ E grigie, ma i grilli/ Moltiplicano riflessi nel display12

Secondo Félix Guattari quando il Caos (che può presentarsi come un ambiente frenetico e stressante, come una complessità incomprensibile, o anche attraverso un evento traumatico e inaspettato) entra in collisione con il ritmo di un individuo provoca in esso dapprima un irrigidimento, un’apnea, e poi una reazione denominata “spasmo”, spesso accompagnata da sofferenza13. Lo spasmo14 può malauguratamente costituire una reazione di ulteriore irrigidimento e anelito reazionario, in esso è però presente anche la possibilità di un rinnovamento. Questo rinnovamento, re-singolarizazzione (resingularisation, un’espressione di Guattari), indica la possibilità creativa di reinventare una modalità unica di relazione con il caos del mondo esterno attraverso il processo denominato Caosmosi.

In luogo della ricerca di un nuovo ordine a cui sacrificare il proprio desiderio e la propria libertà, o dell’affannarsi nella corsa all’informazione, esiste quindi una terza (e non unica) eventualità di sopravvivenza nel caos e nell’incertezza. E’ possibile infatti, secondo quanto affermano i fondatori della schizo-analisi, aprirsi al caos del flusso semiotico senza soccombere ad esso ma dirigendolo verso la produzione di un nuovo e unico ritmo, sorto dall’incontro con l’intima interpretazione legata alla propria storia personale. I nuovi pensieri e stili di vita sono oggi forzati a posizionarsi nel flusso del Caos senza temere di venire inghiottiti in turbini d’incertezza. Questo è possibile riuscendo a mantenere l’integrità e la connessione con il proprio ritmo interiore senza alienarsi nel tempo della produzione semio-capitalista.

Essere a proprio agio nell’incertezza, regnante sovrana del futuro dopoguerra al covid-19, significa quindi innanzitutto radicarsi nel proprio respiro15 valorizzandolo in quanto ponte con la nostra intimità. L’ansia è accompagnata da brevi respiri toracici e da apnee, un tipo di respirazione adottato automaticamente mentre si lavora davanti allo schermo del pc. Concentrarsi su questa attività fisiologica che realmente ci mantiene in vita, per esempio sperimentando la respirazione profonda e il dolce movimento del pavimento pelvico, aumenta la consapevolezza del proprio corpo e rende infatti maggiormente gestibile la tensione. Coltivare questa connessione apre la possibilità d’imbarcarsi nel mare semiotico dagli orizzonti assenti, senza perdere la rotta e orientandosi coltivando nuove vie di sensibilità. “Navigare” quindi nel mare semiotico definendo un moto simile a quello dell’ornitorinco che nuota a occhi chiusi, lasciandosi guidare dal proprio istinto, dal proprio ritmo interiore in contatto con le correnti fluviali. L’atteggiamento fedele alla propria intimità, simboleggiato dagli occhi chiusi dell’ornitorinco, comporta l’accettazione attiva dell’incertezza, dell’impossibilità di conoscere tutto. Ciò vuol dire rendersi conto che ad ogni respiro incarniamo già la versione più aggiornata di noi stessi. La mancanza provata nei confronti di come dovremmo essere, spesso ridotto al solo apparire, si svela quindi come causa di alienazione e allontanamento da sé, dal proprio respiro. Per soddisfare tutti i palati immagino un esempio umile, un po’ grullo ma culinario (sulla musica, la poesia e la creazione si potrebbe dire molto, troppo). Un giovane e spiantato studente fuori sede si trova solo in cucina e, invece di concedere all’app più scaricata (BigOven, credo) ogni decisione riguardo alla sua cena (l’ansia di fronte all’ignoto porta a sostituire il proprio desiderio con uno precostituito, a soccombere al flusso semiotico), decide di seguire il ricordo del profumo di zafferano alonante il sogno della notte passata… E così scopre navigando nel web i cruxionis de arrascottu, ravioli sardi alla ricotta (ri-connessione con la propria intimità seguita da apertura: saggezza dell’ornitorinco).

L’ornitorinco come ultima immagine è il risultato pratico di quanto scritto in questo breve articolo intermediale. Esso simboleggia l’oggetto sconosciuto16 scatenante nuove cascate di interpretazioni e approssimazioni, e rappresenta una vera e propria chimera (animale realizzato con pezzi di altri animali: “orribile” diceva Borges17 forse geloso della sua originalità). La chimera, oltre che essere il simbolo della rivista di schizo-analisi inaugurata dall’anti edipo, suggerisce la forma del soggetto partecipe del processo di Caosmosi così come l’abbiamo presentato: un essere integro ma in grado di formarsi attraverso un assemblaggio unico e particolare delle informazioni a cui può accedere aprendosi al caos del flusso semiotico. L’ornitorinco diguazzante con gli occhi chiusi nei fiumi australiani mantiene la direzione grazie alla sua unica sensibilità delle correnti, né perdendosi né rifugiandosi per codardia in tane buie e nascoste come una talpa. Questo monotremo, anello mancante, può schiudere intuizioni su come essere oggi un esemplare unico eppure in relazione non distruttiva, in contatto con la propria intimità ma aperto alla caleidoscopica offerta dal cosmo.

La saggezza dell’ornitorinco è forse metafora chiave per sfuggire al controllo degli algoritmi che governano il funzionamento della rete e che possono quindi sottomettere chi vive al suo interno: i neuro-proletari18, sempre più forzati al lavoro virtuale anche in virtù della pandemia. Forse una guida per eludere l’occhio scrutante della macchina algoritmica19 senza però rintanarsi in un individualismo esasperato né rinunciare a prendere parte all’organismo corale della collettività connessa. Al fine di essere imprevedibili e attivi produttori di desiderio (racchiusi nell’impossibile sfera della forma eiaculante, direbbe Gianni Milano20). Mantenersi in contatto con questa essenza creatrice significa soprattutto non cristallizzarsi immedesimandosi con le identità preconfezionate di cui trabocca l’offerta della macchina algoritmica: profili instagram e facebook degli influencer , nuovi sistemi di credenze magari reazionari, new age tiranneggiati dal pensiero perennemente positivo 21 o guidati dalla fede cieca nella scienza (ipse dixit) o nella propria carriera…

Un’alternativa è adottare un’attitudine di attenzione al mondo esterno che dev’essere però costantemente criticato e reinterpretato. Se si assume questa vocazione di attiva decostruzione sia verso il mondo che verso la propria soggettività scompare la tentazione di rifugiarsi nel conformismo, ma scompare con essa anche il culto individualistico. E molte delle personalità che si assumono, impegnandosi lavorando fino al burn-out, potrebbero svelarsi produzioni della macchina algoritmica.

Questo isolamento da pandemia, esasperando la realtà della nostra solitudine di monadi e le angosce del tardo capitalismo, ha intensificato la stessa condizione d’individualismo e sovrabbondanza invadente di informazione che già si viveva prima della quarantena. Ma proprio per questo esso ha offerto la possibilità, a tratti drammatica, di rinnovamento ex nihilo della relazione fra l’interiorità e la complessità del mondo esterno. Sotto la guida del proprio presente, delle coincidenze e accadimenti che intessono la storia di ciascuno a cui siamo sempre ancorati attraverso il corpo ed il respiro, si apre la possibilità di decostruirsi e ricomporsi senza forzare il proprio ritmo interiore. L’esito di questa danza vitale appare come un patchwork unico di traiettorie narrative e percorsi estetici pescati nel sovrabbondante flusso semiotico: una mutazione di individui in chimere che reagiscono all’ansia non ripiegandosi in nuovi ordini omologanti, ma con il continuo e incessante rinnovamento della relazione caosmotica fra la soggettività ed il mondo.

Chloé Sassi, “Chimère”, 2020

Tiziano Canello si laurea nel 2019 in Scienze del Corpo della Mente con una tesi sperimentale. Si interessa all’etno-psichiatria, alla filosofia, alla psicoterapia, alle applicazioni terapeutiche e sociali degli stati non ordinari di coscienza. Quest’ultima passione l’ha portato a fondare l’associazione universitaria Mens Ex Machina, a organizzare eventi culturali sul tema, a collaborare con la Società Psichedelica Italiana e con la rete Psy*Co*Re. Pratica da sei anni lo yoga (asana, pranayama e meditazione). Sta attualmente svolgendo il tirocinio professionalizzante presso l’Università di Torino portando avanti l’attività di ricerca.

1 A. Nothomb la metafisica dei tubi citata nel blog di Gianni de Martino.

2 « La soggettività non è un dato naturale. Come produrla, comprenderla, arricchirla, reinventarla in modo da renderla compatibile con un universo di valori mutanti? » Félix Guattari (1991), Chaosmose, édition Galilée, p.186 (traduzione mia).

3 Félix Guattari (1991) ibidem.

4 Superfluo ma suggestivo riferimento alla serie di anime giapponesi “Ghost in the Shell”.

5 Ciò non toglie che il modello in cui i social network sono strutturati sia potenzialmente causa di dipendenza.

6 Molto interessante sul tema della paranoia Zoja Luigi (2011): Paranoia la follia che fa la storia, Bollati e Boringhieri.

7 Un termine introdotto nel libro di Franco Bifo Berardi (2009): The soul at work, MIT press

8 “Perché le masse contribuiscono all’ascesa del fascismo?” una domanda problematica e posta da Wilhelm Reich nel 1933 in: La psicologia di massa del fascismo (edizione Einaudi, 2009)

9 Di ciò si è molto scritto, elencando velleità e contraddizioni per esempio in The Vision: https://thevision.com/coronavirus/pandemia-bivio-ambientale/?sez=all&ix=1 .

10 Sul successo dei nuovi fascismi in relazione al coronavirus si veda: https://www.bbc.com/future/article/20200401-covid-19-how-fear-of-coronavirus-is-changing-our-psychology .

11 F. Nietsche (1878): Umano troppo umano pg244

12 A. Zanzotto (2011): Haiku per una stagione, University of Chicago press pg.31

13 “Una stasi esistenziale che io qualifico come caosmica […] In tutti gli altri casi (a parte quello della psicosi) questa fase viene assimilata attraverso un’evitamento, uno spostamento, una violazione, una sfigurazione, una sovradeterminazione (per esempio con i sogni), una ritualizazzione…” Félix Guattari, ibidem, p.112 (corsivo e traduzione miei).

14 Un concetto non troppo elaborato dallo psichiatra francese, che morì pochi anni dopo la sua formulazione soffocato dalla depressione e da scariche d’immagini televisive (secondo quanto raccontato dal suo amico Jean-Jacques Lebel). https://www.lrb.co.uk/the-paper/v32/n24/adam-shatz/desire-was-everywhere

15 Franco “Bifo” Berardi (2018): Breathing chaos and poetry, semiotext(e) interventios series.

16 U.Eco (1997): Kant e l’ornitorinco, Bompiani ed.

17 Citato in U. Eco (1997), ibidem.

18 Una classe proletaria del nuovo millennio: “I produttori di informazioni possono essere visti come neuro-lavoratori. Preparano nel loro sistema nervoso un terminale attivo di ricezione attivo per più tempo possibile. L’intera giornata è soggetta ad una attivazione semiotica che diventa effettivamente produttiva solo quando è necessario” Franco Bifo Berardi (2009): The soul at work, p.82 (traduzione mia).

19 Termine usato da Edoardo Camurri nel suo blog 2666 nel Foglio e derivato dalla filosofia cyberpunk, viene così descritta in un’intervista rilasciata su Rakutenkobo: “Rilasciamo ogni secondo tracce e dati che vanno a nutrire una macchina algoritmica. Questi dati raccontano tutto di noi: un programma legge le nostre impressioni e su quelle costruisce e rafforza un profilo psicologico” https://www.kobo.com/it/blog/edoardo-camurri?fbclid=IwAR0dLvv7N9gwAe73A97l43QnFzO-nw-DcFTcOy93S2ujSmztNJ4I4EGayE4. Per una chiara comprensione dell’evoluzione del concetto invece si veda: https://www.stateofmind.it/2020/05/privacy-mentale-etica/?fbclid=IwAR0bGtNb5r03ROZSgEezbY3Mxdkr38rgUHoqIyl3emcZIphl8EMIi8tq2-o

20 Dalla poesia di Gianni Milano (poeta beat italiano) “Uomo Nudo” https://www.poesie.reportonline.it/gianni-milano/uomo-nudo-di-gianni-milano.html

L’esito di questa danza vitale appare come un patchwork unico di traiettorie narrative e percorsi estetici pescati nel sovrabbondante flusso semiotico: una mutazione di individui in chimere che reagiscono all’ansia non ripiegandosi in nuovi ordini omologanti, ma con il continuo e incessante rinnovamento della relazione caosmotica fra la soggettività ed il mondo.

Chloé Sassi, “Chimère”, 2020

Tiziano Canello si laurea nel 2019 in Scienze del Corpo della Mente con una tesi sperimentale. Si interessa all’etno-psichiatria, alla filosofia, alla psicoterapia, alle applicazioni terapeutiche e sociali degli stati non ordinari di coscienza. Quest’ultima passione l’ha portato a fondare l’associazione universitaria Mens Ex Machina, a organizzare eventi culturali sul tema, a collaborare con la Società Psichedelica Italiana e con la rete Psy*Co*Re. Pratica da sei anni lo yoga (asana, pranayama e meditazione). Sta attualmente svolgendo il tirocinio professionalizzante presso l’Università di Torino portando avanti l’attività di ricerca.

Pensiero-Macchina, ovvero: a cosa pensano i computer?

Esiste un linguaggio tecnico ed evocativo che definisce le componenti di un periodo o di una proposizione interpretate da un sistema informatico. Un nuovo linguaggio per il linguaggio. Per esempio, viene definito token (tradotto letteralmente gettone) l’unità di base della frase, vengono definite stopwords tutte le parole più comuni del linguaggio, e viene definita bag of words (borsa di parole) la raccolta sparsa delle parole di un testo. L’analisi logica e grammaticale dei computer avviene tramite il Natural Language Processing, una tipologia di Intelligenza Artificiale alla base di numerosi tool che utilizziamo quotidianamente senza farci troppo caso: assistenti virtuali, traduttori automatici e chatbot. Pian piano stiamo trasformando ogni oggetto che ci limitavamo ad attaccare alla corrente elettrica in qualcosa di cognitivo, capace di imparare dal passato e di conversare con noi.

 

Le idee alla base di queste applicazioni non sono recenti e hanno destato la fantasia di molti scrittori e cineasti: Italo Calvino, ad esempio, paragonava l’autore a una “macchina scrivente” e si chiedeva fino a che punto la cibernetica potesse avvicinarsi alla creatività umana, mentre C-3PO di Guerre Stellari è forse l’esempio più famoso di assistente virtuale nel cinema sci-fi. I primi tentativi di traduzione automatica sono stati fatti subito dopo la seconda guerra mondiale adattando i metodi di decodificazione dei messaggi criptati. In ogni caso, non è corretto aspettarsi che ad una grande scoperta scientifica debba corrispondere una rivoluzione culturale. A far diventare realtà quelli che erano esercizi intellettuali fu l’avvento del web 2.0: le grandi quantità di informazioni riversate in rete fecero nascere l’esigenza di trattare e contenere una grande mole di dati, i Big Data. La necessità di processare quantità così grandi di informazioni ha involontariamente fondato la base di ogni modello di apprendimento automatico: l’esperienza. Non si può imparare senza una base di conoscenza, ecco perchè l’addestramento dei sistemi informatici avviene nutrendo gli algoritmi con input di informazioni precedentemente raccolte. L’Intelligenza Artificiale è oggi sempre più performante perchè le informazioni che processa puntano a sfiorare lo scibile.

 

Anaïs Nin ha scritto “Non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo noi.” ; e la scienza le dà ragione. Le recenti teorie psicologiche e  neuroscientifiche sulla percezione convalidano l’idea che il cervello codifichi il mondo esterno in base alle sue aspettative e utilizzi l’esperienza vissuta per dare una spiegazione di quello che accade, aggiornando continuamente le ipotesi migliori sulla base degli input che riceve.

(Figura 1)

Si parla di cervello predittivo; e la realtà, per come ci appare, viene vista come una costruzione adattiva del cervello per il cervello. In questi termini ogni individuo rappresenta un mondo di percezioni unico e indipendente, risultato non replicabile di ciò che ha visto, sentito, assaporato, pensato, nonché di una serie di fattori genetici, ambientali, storici e culturali. Non abbiamo mai la realtà in tasca ma solo una riformulazione nella nostra mente. Questa teoria viene utilizzata per spiegare il perché il mondo del web si sia diviso nel 2015 tra chi vedeva il famoso vestito blu e nero e chi lo vedeva bianco e oro (in figura 1): siamo tutti diversi, e le nostre percezioni non sono assolute, ma dipendono dalla nostra esperienza.

 

 

Un computer funziona esattamente così: nella fase di apprendimento gli vengono forniti input e target, l’algoritmo crea un modello che restituisce l’ipotesi più probabile di classificazione a qualsiasi nuovo input gli venga presentato. Più casi gli vengono dati per l’addestramento, più il computer sarà accurato. Grazie alla “bontà” dei dati che vengono forniti agli algoritmi di Machine Learning, i motori di ricerca capiscono sempre meglio dove vogliamo arrivare, gli annunci online sono sempre più su misura per noi, e gli assistenti virtuali riescono a tenere una conversazione comprendendo il senso di ciò che diciamo.

 

 

Vi è mai capitato di guardare un’immagine o una geometria senza capirla, e tutt’a un tratto vi viene spiegato il contenuto? In quel momento il vostro cervello mette in archivio quell’informazione e forse non riuscirete più a guardare l’immagine allo stesso modo.

(Figura 2)

Anche se i segnali che raggiungono i vostri occhi non sono cambiati, avrete creato un nuovo schema di risoluzione, una nuova ipotesi da utilizzare per comprendere il mondo, e sarete più bravi a interpretare un’immagine simile la volta successiva! Un esperimento dello stesso tipo è stato fatto per spiegare l’allucinazione come un errore di codifica del cervello predittivo.

Sono state presentate, a soggetti sani e a soggetti con disturbi neuropsichiatrici, alcune immagini in due tonalità (Figura 2 e 3). In seguito si è chiesto loro di riconoscerle, tenendo accanto un esempio esplicativo. Progredendo nel test, si è riscontrato che gli individui affetti da psicosi o allucinazioni miglioravano notevolmente nella comprensione delle immagini rispetto agli individui sani. Le nostre ipotesi su quello che vediamo sono inconsciamente condizionate da quello che consideriamo più plausibile; quindi, per riconoscere qualcosa che non siamo abituati a vedere, dobbiamo testarlo un tot di volte e abituarci alla sua realtà.

(Figura 3)

Gli individui con allucinazioni sembrano dare una probabilità maggiore a ipotesi di percezione che hanno esperito più di recente o che possiedono una caratteristica suggestiva nel soggetto, nonostante non siano le deduzioni più probabili.

I sistemi informatici valutano la migliore ipotesi in base a calcoli statistici, e non commettono errori; ma, se fornissimo loro una quantità maggiore di immagini in bianco e nero, il loro mondo sarebbe in bianco e nero, e tutti gli altri colori una sorta di allucinazione poco probabile.

 

 

Dal momento che le macchine hanno una memoria superiore alla nostra e un’attenzione indiscriminata a tutti i dettagli, si è assistito, negli ultimi anni, alle prime “magie” dell’Intelligenza Artificiale. Uno studio fatto negli Stati Uniti ha permesso ai computer di individuare il cancro al seno in scansioni mammografiche in cui l’occhio umano non era stato in grado di diagnosticare la malattia; e una recente ricerca italiana ha permesso di riconoscere le infezioni da SARS-CoV-2 da semplici analisi del sangue. Inizialmente Google Translator utilizzava la programmazione classica per trasformare stringhe di parole nel corrispettivo tradotto. Questa soluzione implicava migliaia di linee di codice con tantissimi condizionali, e si arrivava a un risultato piuttosto scarso. Ora, in pochissime righe di codice, il traduttore riconosce i pattern di cui è composta la frase e permette una traduzione che va migliorando. Questo perchè ha imparato gli schemi comuni che compongono le frasi da tantissimi esempi; ma non solo. Il linguaggio parlato (o naturale) non può venire tradotto attraverso semplici sostituzioni di parole. Serve qualcosa che aiuti a risolvere le ambiguità lessicali e che permetta di capire il senso di quello che si dice e il valore semantico della parola nel contesto. Un calcolatore elabora i dati in modo binario, utilizzando solo zero e uno per qualsiasi operazione. Quindi la domanda è: come fa un computer a comprendere il linguaggio dell’uomo, utilizzando solo zero e uno? Inizialmente deve essere “tradotto” nella sua lingua, e quindi in numeri. Questo approccio viene chiamato Word Embedding e permette di trasformare ogni parola in un vettore immerso in uno spazio multidimensionale. Generalmente si utilizzano 300 dimensioni, e ognuna di esse deve catturare un aspetto del significato della parola. In questo modo si può calcolare la somiglianza o la differenza di due parole nelle varie direzioni. Semplificando molto, leone e leonessa potrebbero avere la stessa intensità nella direzione pericolosità, e verso opposto nella direzione genere (Figura 4).

(Figura 4)

 

Il metodo del Word Embedding permette ai sistemi informatici di capire la semantica. Il linguista John Rupert Firth ha scritto: “Conoscerai una parola dalla compagnia che frequenta.” Chi ha dovuto imparare una lingua sconosciuta da zero sa bene che il contesto ha un ruolo fondamentale. Le lingue hanno una propria logica che struttura il pensiero nella nostra mente. Se parliamo una nuova lingua pensando ai costrutti della nostra lingua madre, stiamo in realtà operando una mera sostituzione delle parole, ovvero stiamo funzionando come il Google Translator delle origini, e di questo passo non saremo mai in grado di comunicare appieno con uno straniero. Se, tuttavia, alleniamo l’orecchio, possiamo elaborare i modi di dire nella nostra mente ed utilizzarli nella forma corretta. Impariamo, così, ad esporre un concetto perché lo abbiamo udito in un numero sufficiente di volte e di occorrenze, come si suol dire: si dà un nome solo a quello che si conosce.

 

Il linguaggio naturale è lo strumento comunicativo degli esseri umani; per passare attraverso i computer questo viene prima “denaturalizzato”. Qualche tempo fa ho voluto provare a scrivere un algoritmo basato su una rete neurale ricorrente (RNN) a scopo generativo. Il modello viene generalmente utilizzato per problemi di classificazione/previsione. Nel realizzarlo non ho tenuto conto degli approcci Word Embedding e, di conseguenza, l’algoritmo non ha registrato il significato delle parole, ma ha imparato come si costruiscono le frasi. Data una prima parola di partenza, il computer non ha fatto altro che prevedere il carattere successivo più plausibile. La mia scelta letteraria da condividere con la macchina è stata Pinocchio di Collodi. Il testo non era abbastanza lungo da permettere la generazione di qualcosa di sensato, ma il risultato è stato comunque apprezzato. Una parte di output era:

 

“tre giorni fa sulla spiaggia benedetta! Anch’oggi potrò fare una gamba di tavolino. —Detto ciò prese subito laggiù; rompi col tuo fortissima sgropponata, scaraventò in pochi minuti arriveremo a terra e, camminando colle mani un segno, come dire al muro.— Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo! —Queste parole, soggiunse subito:— Il mio amico….— Tuo amico?— Un mio compagno. Prima di tutto per arricchire gli altri la sensibilità del suo cuore. Dopo avere sbadigliato, e buon pro ti faccia. —In men di mezz’ora, arrivò a un piccolo paesetto, fabbricato sulla strada, va’ piuttosto il vestito nuovo. Prendili, Lumaca, e va’ a portarli subito alla Fata. E la Fata, tutta contenta, gli disse così:—Polendina, tremare di tutto perchè? — prese la grida inzupparecchio, e di signori in corpo una secchia di passi, e dopo averlo messe a correre con una gran contentezza, si pose.

Insegno l’abbaco alle formicole che passano per la cena di stasera. —E nel dir così si asciugò una lacrima che gli corre.”

 

L’immaginario collettivo di un robot che parla è spesso qualcosa di arido e un po’ primitivo. Il che combacia con il lessico usato in informatica per descrivere la programmazione al livello più basso: il cosiddetto linguaggio macchina, fatto di soli sostantivi, dritto al punto, come uno straniero alle prime armi con l’italiano. Paradossalmente, più che una fredda e prolissa spiegazione della realtà, sembra quasi una presa in giro delle nostre costruzioni lessicali. Facciamo loro leggere qualcosa e scimmiottano i nostri modi di dire e le nostre composizioni di parole. In questo caso, più che frasi tratte da un libro di ingegneria, sembra un ricalco grossolano di un mondo fantastico toscanaccio; ricordando alla lontana Fosco Maraini in Gnosi delle Fanfole per le parole che non hanno un vero senso, e a volte non appartengono a nessun dizionario; ma sono evocative e, soprattutto, ci stanno bene.

 

Riconducendo quello che possiamo chiamare pensiero macchina a qualcosa di molto simile al pensiero umano, rischiamo però di semplificare troppo e di cancellare quell’alone di mistero che ci piace tanto. Spesso il rifiuto delle potenzialità dell’Intelligenza Artificiale va ricondotto al nostro atavico bisogno di affermarci come qualcosa di più di una struttura in cui vengono elaborate e memorizzate informazioni. L’umorismo, la coscienza e la creatività sono difficili da separare dalla formazione di idee proprie, intuizioni, scollegate da un magazzino di dati. Insomma, non si può simulare tutto. L’opera letteraria viene ritenuta ancora frutto di una certa flessibilità, intimità, frutto delle relazioni che costruiamo, degli affetti che leghiamo e delle soluzioni che adottiamo.

Per dirlo meglio: come ha scritto Pietro Cimatti nella poesia Al nuovo Dio, quello che gli “agili transistor” non riusciranno mai a capire, è “il conto che non torna”.

Angelica Saviolo

L’influenza del Coronavirus sui nostri sogni

Ognuno di noi ha sicuramente provato momenti di paura, rassegnazione, frustrazione e ansia in conseguenza all’emergenza COVID—19. Tutte le persone del mondo stanno vivendo questa nuova esperienza che richiede cambiamento, sacrificio e forza.

Non solo la nostra vita quotidiana ma anche la nostra vita “nel mondo dei sogni” è mutata in conseguenza alla pandemia e le ricerche in merito hanno portato risultati interessanti e significativi.

 

 A gennaio del 2020 in Cina è comparso un nuovo tipo di Coronavirus responsabile di problematiche legate all’apparato respiratorio chiamato COVID-19. Nel marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il virus non era confinato solo ad alcune aree del mondo ma che la sua espansione era mondiale.

Da quel momento abbiamo iniziato a seguire, quotidianamente, i bollettini dei contagi, dei ricoveri e dei decessi. L’Italia è stato uno dei paesi d’Europa più colpiti dalla pandemia.

Ci hanno spiegato come il contagio avvenga tramite il contatto e la condivisione degli spazi; persone asintomatiche o con sintomi lievi possono contagiare altre persone che, per problemi di salute o basse difese immunitarie, possono contrarre il virus in maniera più grave. L’unica difesa contro il contagio, in attesa del vaccino, è il distanziamento sociale.

Inizialmente le misure restrittive stabilite dal Governo Italiano erano rivolte alle regioni identificate come “zone rosse”. Tali misure hanno coinvolto e interessato molte delle aree della nostra quotidianità: impossibilità di creare assembramenti negli spazi pubblici, sospensione delle attività sportive, interruzione delle lezioni scolastiche in presenza, chiusura di musei, delle attività commerciali, di ristoranti e bar, incremento esponenziale dello smart-working come modalità di lavoro.

Alla fine di marzo siamo entrati nel primo lockdown, con il divieto di uscire di casa se non per motivi di lavoro o comprovate esigenze e sempre accompagnati da un’autocertificazione.

Una tale forma di isolamento sociale non era mai stata sperimentata nella storia. Ognuno di noi ha drasticamente cambiato la propria vita, l’organizzazione della giornata, ha interrotto le relazioni sociali con i familiari e gli amici per rimanere a casa. Per la prima volta tutta l’Italia e così l’Europa e il mondo erano chiamati a comportarsi nello stesso modo e a rispettare le stesse regole.

Le prime conseguenze di questa situazione sono state un senso di paura e preoccupazione rispetto all’essere contagiati e alle difficoltà economiche e lavorative che tale situazioni avrebbe portato e che porterà.

 

Possiamo definire questa esperienza che stiamo tuttora vivendo come traumatica. I Centri di Salute Mentale e le richieste di supporto psicologico sono aumentate esponenzialmente in quanto, moltissime persone hanno sperimentato e stanno sperimentando ansia, depressione, stress e  altre problematiche psicologiche (Wang, Zhou, & Zong, 2020; Zandifar & Badrfam, 2020).

Molti studi, infatti, riportano che la quarantena, l’isolamento sociale e le paure correlate al COVID-19 hanno portato a sofferenza psicologica in molte persone, con sintomi quali ansia, depressione e sintomatologia tipica del disturbo post-traumatico da stress.

Tutti questi sintomi sono spesso correlati a problemi del sonno quali insonnia, scarsa qualità del sonno, ritmi irregolari, che innescano un circolo vizioso che porta a sperimentare ancora più ansia, tensione, stress. Un sonno disturbato, irregolare e agitato può essere influenzato dal contenuto dei sogni che facciamo.

Partendo dall’ipotesi che il contenuto dei sogni riflette la vita “da svegli” (Domhoff, 1996; Schredl & Piel, 2006), è facile pensare che l’impatto soggettivo della pandemia e delle sue conseguenze può riflettersi anche all’interno del contenuto dei sogni che ognuno di noi può aver fatto e continuare a fare durante l’isolamento.

Partendo dal pensiero psicoanalitico di Freud (Freud 1900 ) e di altri autori che negli anni si sono occupati del tema (Sommantico 2016, 2018; Velotti e Zavattini, 2019), i sogni possono essere interpretati non solo come una ricerca di soddisfazione e realizzazione di desideri, ma anche e soprattutto come un modo per analizzare, interpretare e trasformare in modo retrospettivo un evento traumatico della vita reale “da svegli”.

In questo senso possiamo pensare che eventi significativi che avvengono nella nostra vita possono essere associati a specifiche esperienze di sogno come modo per affrontarli e elaborarli.

Risulta, quindi, semplice pensare che i sogni di ognuno di noi, durante il periodo di lockdown conseguenti all’arrivo del COVID-19, sono più realistici e caratterizzati da forti emozioni negative, con toni e connotazioni forti e che spesso portano a sensazioni realistiche di ciò che stiamo sognando.

Da diversi studi legati al tema ((Nielsen et al., 2000; Schredl, 2002; Schredl & Reinhard, 2008; Settineri, Frisone, Alibrandi, & Merlo, 2019) è emerso come le donne ricordino con più facilità i sogni e spesso valutino i loro sogni come emotivamente più intensi e con emozioni negative predominanti, rispetto agli uomini.

Gli stessi studi riportano come, le persone che conoscono persone affette da COVID-19 o che hanno subito un lutto a causa di esso, riportano una più alta intensità emotiva, impressioni sensoriali più realistiche e senso di frustrazione nella maggior parte dei loro sogni.

Si può pensare che conoscere persone affette o decedute a causa del COVID possa aver portato gli individui coinvolti a sperimentare esperienze emotive intese che possono aver stimolato un’attività onirica di maggiore carico emotivo negativo e vividezza. Infatti, come abbiamo detto, eventi significativi della vita reale vanno a influenzare il contenuto dei nostri sogni, reinterpretando il nostro vissuto rispetto a ciò che viviamo e sperimentiamo nella vita “da svegli”.

Un elemento molto interessante da sapere rispetto a questo tema, emerso nelle ricerche, è che i contenuti dei sogni di molte persone di diverse parti del mondo sono simili. Ci si trova in situazioni all’esterno del contesto dove si sta vivendo il lockdown quali strade, spiagge, bar affollati di persone, conosciute e non, in spazi pieni di oggetti vari e spesso con animali.

Questo potrebbe essere interpretato come un desiderio di socializzazione, relazioni, contatti fisici espressi nei nostri sogni mentre stiamo vivendo una situazione di isolamento, mancanza di socialità e lontananza.

Molto comune è, inoltre, sognare persone che hanno fatto parte della nostra vita ma nel passato (compagni di scuola, ex-fidanzati, insegnanti) in situazioni di vita normali e attuali. Potremmo pensare che i nostri sogni cerchino di sottolineare l’importanza delle relazioni ricordando un passato fatto di significati e contatti che ora non possiamo vivere.

Per quanto riguarda le emozioni più presenti nei nostri sogni, sono state riscontrate poche emozioni positive quali felicità, serenità, calma. Le emozioni più presenti, infatti, sono paura, panico, terrore, ansia, spesso vissuti all’interno di situazioni e ambienti pericolosi o violenti. All’interno di questi sogni, spesso, possiamo sentirci protagonisti di una “missione” dove però non riusciamo ad agire o a trovare una soluzione, cerchiamo di combattere contro dolore, violenza e morte ma non riusciamo a portare a termine il nostro compito. L’elemento importante da sottolineare è che, nella maggior parte dei casi, in questi sogni non si riesce a riportare o riconoscere un’emozione specifica bensì ci si sente in uno stato di alessitimia tipica dei processi traumatici e del disturbo post-traumatico da stress (Di Giacinto et al., 2015; Taylor & Bagby, 2013).

Alla luce di queste ricerche e dei dati emersi possiamo dire che i sogni che stiamo facendo durante questo periodo di lockdown e pandemia sono principalmente realistici, caratterizzati da stati emotivi intensi e negativi, con sensazioni realistiche e all’interno di situazioni frustranti e pericolose.

I nostri sogni rappresentano ciò che desideriamo, come interpretiamo e rielaboriamo la realtà all’interno della nostra mente e come la introiettiamo. L’esperienza che stiamo vivendo è una novità per tutti noi e sapere, che in ogni parte del mondo, moltissime persone stanno sperimentando contenuti onirici simili dovrebbe farci capire come siamo tutti uniti e coinvolti in questa situazione e responsabili del nostro futuro per tornare alla normalità e a dormire sonni tranquilli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Di Giacinto, A., Lai, C., Cieri, F., Cinosi, E., Massaro, G., Angelini, V., . . . di Giannantonio, M. (2015). Difficulty describing feelings and post-traumatic symptoms after a collective trauma in survivors of L’Aquila earthquake. Journal of Mental Health, 24, 150–154. http://dx.doi.org/10.3109/09638237.2015.1019055

 

Domhoff, G. W. (1996). Finding meanings in dreams. A quantitative approach. New York, NY: Springer.

http://dx.doi.org/10.1007/978-1-4899-0298-6

 

Freud, S. (1900). The interpretation of dreams. In J. Strachey (Ed. & Trans.), The standard edition of the complete psychological works of Sigmund Freud (Vols. 4 and 5, pp. 1–628). London, UK: Hogarth Press.

 

Nielsen, T. A., Laberge, L., Paquet, J., Tremblay, R. E., Vitaro, F., & Montplaisir, J. (2000). Development of disturbing dreams during adolescence and their relation to anxiety symptoms.Sleep, 23, 727–736. http://dx.doi.org/10.1093/sleep/23.6.1

 

Schredl, M., & Piel, E. (2006). War-related dream themes in Germany from 1956 to 2000. Political Psychology, 27, 299–307. http://dx.doi.org/10.1111/j.1467-9221.2006.00008.x

 

Schredl, M., & Reinhard, I. (2008). Gender differences in dream recall: A meta-analysis. Journal of Sleep Research, 17, 125–131. http://dx.doi.org/10.1111/j.1365-2869.2008.00626.x

 

Schredl, M. (2002). Questionnaire and diaries as research instruments in dream research: Methodological issues. Dreaming, 12, 17–26. http://dx.doi.org/10.1023/A:1013890421674

 

Settineri, S., Frisone, F., Alibrandi, A., & Merlo, E. M. (2019). Italian adaptation of the Mannheim Dream Questionnaire (MADRE): Age, gender and dream recall effects. International Journal of

Dream Research, 12, 119–129. http://dx.doi.org/10.11588/ijodr.2019.1.59328

 

Sommantico, M. (2016). A couple’s unconscious communication: Dreams. British Journal of Psychotherapy, 32, 456–474. http://dx.doi.org/10.1111/bjp.12251

 

Sommantico, M. (2018). La fonction transformatrice du rêve [The transformative function of the dream].Revue française de psychanalyse, 82, 1475–1480. http://dx.doi.org/10.3917/rfp.825.1475

 

Velotti, P., & Zavattini, G. C. (2019). È ancora attuale l’uso del sogno nella pratica clinica? [Is the use of dream still actual in clinical practice?] Giornale Italiano di Psicologia, 3, 433–462.

 

Taylor, G. J., & Bagby, R. M. (2013). Psychoanalysis and empirical research: The example of alexithymia. Journal of the American Psychoanalytic Association, 61, 99–133. http://dx.doi.org/10.1177/0003065112474066

 

Wang, C., Zhou, J., & Zong, C. (2020). Two cases report of epidemic stress disorder to novel coronavirus

pneumonia. Asian Journal of Psychiatry, 51, 102070. http://dx.doi.org/10.1016/j.ajp.2020.102070

 

Zandifar, A., & Badrfam, R. (2020). Iranian mental health during the COVID-19 epidemic. Asian Journal of Psychiatry, 51, 101990. http://dx.doi.org/10.1016/j.ajp.2020.101990

 

Dott.ssa Martina Orengo

L’importanza dell’incontro, della relazione personale nello scambio di conoscenze e nella costruzione di reti

La domanda che spesso ci si pone è se ha ancora senso incontrarsi fisicamente anche a costo di faticosi e dispendiosi spostamenti nell’era della comunicazione digitale. Nel periodo precedente alla pandemia l’industria MICE (L’acronimo MICE sta per Meetings, Incentives, Conferences and Exhibitions (riunioni, incentive tour, conference ed esposizioni) stava vivendo un’era di grande sviluppo il che potrebbe apparire contraddittorio con le possibilità delle nuove tecnologie di trasferire contenuti e conoscenza. Al contrario, come nel suo insieme queste righe vorrebbero dimostrare, l’incontro di persona è in larga misura insostituibile anche se può essere affiancato da nuovi strumenti.

Le tecnologie digitali promettono miracoli ma dobbiamo fare attenzione ai rischi ed ai trabocchetti che ci pongono. In un discorso all’Hampton University in Virginia nel 2010 Barack Obama ha descritto il bombardamento mediatico cui siamo quotidianamente sottoposti e ha messo in guardia gli studenti dall’uso eccessivo di terminali digitali che finiscono per trasformare l’informazione in una forma di diversivo intrattenimento e non al contrario in una occasione di emancipazione del cittadino.

Ovviamente Obama non intendeva scoraggiare l’adozione delle nuove tecnologia quanto invitare gli studenti a sviluppare le strategie necessarie ad orientarsi nel mondo della comunicazione digitale.

Dobbiamo quindi essere attenti a non trascurare e svalutare la qualità della relazione personale soprattutto ai fini dell’apprendimento.

Moreno parla di una “teoria della spontaneità dell’apprendimento” collegando l’apprendimento non solo alla tonalità affettiva dell’esperienza da cui l’apprendimento discende ma allo stato di spontaneità in cui l’esperienza stessa è stata vissuta.

Moreno pensava che lo stato di spontaneità predisponga all’apprendimento sia prevalentemente associativo sia legato ad obiettivi, consentendo una particolare plasticità delle funzioni cognitive.

L’addestramento alla spontaneità non è un evento dissociabile dal contesto in cui avviene: ”la spontaneità non opera nel vuoto, bensì si manifesta in relazione a fenomeni già strutturati, a modelli culturali o sociali prestabiliti[1]. Il processo di apprendimento, che la spontaneità favorisce, è un’esperienza vissuta in forma collettiva. È il prodotto del concatenarsi e dell’intersecarsi dinamico di tutte le forze che direttamente o indirettamente agiscono sul soggetto, è il prodotto di una catarsi psichica che Moreno chiama catarsi di integrazione.

Moreno trova incompleta la spiegazione della psicologia collettiva dell’individualità nel contesto di massa e anche della psicologia individuale che tende a interpretare i fenomeni collettivi mediante strumenti conoscitivi elaborati nell’osservazione psicologica del singolo.

Se Moreno, che non ha avuto la fortuna di conoscere Internet, la ricerca deve orientarsi verso lo studio dell’interazione di gruppo, e sottolinea l’importanza dell’ambiente e della tonalità affettiva al fine dell’apprendimento, nell’era digitale ci confrontiamo con un aumento esponenziale delle occasioni di relazione vissuto in un clima frenetico e superficiale.

Nicholas Carr giornalista scientifico ed ex direttore dell’Harvard Business Review scrive a proposito dell’era digitale:”Il nuovo mondo rimarrà, naturalmente, un mondo letterato, arricchito dei simboli famigliari dell’alfabeto, ma nel quale non possiamo tornare al mondo perduto della comunicazione orale cosi come non possiamo far tornare le lancette dell’orologio al tempo in cui non esistevano gli orologi. [… ]Il mondo dello schermo, come ci stiamo accorgendo, è un luogo molto diverso dal mondo delle pagine. Una nuova etica intellettuale si sta affermando, i percorsi della nostra mente sono ancora una volta re-instradati[2]. Secondo Carr solo apparentemente le comunicazioni delle chat, dei blog, dei forum, stanno tornando ad assomigliare a quelle dei tempi della comunicazione orale essendo più informali e colloquiali. Questo è solo un dato apparente perché la comunicazione orale avveniva di persona e non attraverso un intermediario tecnologico. Riprendendo Walter Ong, Carr afferma che “Il mondo orale non esiste in un contesto puramente verbale, così come succede per le parole scritte. Il parlato da sempre luogo ad una trasformazione della situazione esistenziale, che coinvolge sempre il corpo. L’attività del corpo al di là della mera vocalizzazione non è accidentale o artificiosa ma naturale e anche inevitabile[3]

La virtualità ci espone a geografie più fluide in cui possiamo relazionarci senza limiti di prossimità e mettendo in crisi uno dei paradigmi individuati da Leon Festinger. In un saggio[4] del 1950, ampiamente citato nel seguito di questo lavoro, Festinger afferma, supportato da verifiche sperimentali, l’importanza della prossimità fisica e funzionale nello stabilire nuove relazioni. In questo modo alimentiamo un circolo vizioso rafforzando la stessa gabbia sociale che ci rinchiude ma, d’altro canto, abbiamo la tendenza a circondarci di persone, che hanno lo stesso status, che ci confermano nel ruolo che ci piace assumere, che hanno i nostri gusti, vestono come noi, sono della nostra etnia, etc.

Già il passaggio dalla vita comunitaria alle società moderne ha aumentato i diritti individuali e la nostra libertà: possiamo scegliere in base alle nostre opinioni dove vivere e con chi vivere ma abbiamo meno opportunità di confrontarci con chi è diverso da noi.

Le moderne tecnologie dell’informazione hanno ancora di più accentuato questo livello di libertà per cui oggi è relativamente facile costruirsi un “ambiente relazionale” basato sulla omogeneità delle opinioni.

Pensiamo agli orientamenti sessuali, fino a pochi anni fa la normalità era un concetto fondato su un grado di condivisione sociale piuttosto elevato e gusti o tendenze difformi erano facilmente oggetto di condanna generando emarginazione e ghettizzazione dei diversi.

Internet facilita enormemente la creazione di comunità virtuali dove è possibile condividere con persone simili la propria esperienza trovando la forza di reagire alla pressione sociale tendente all’omologazione.

Howard Reinghold giornalista e saggista americano è stato forse il primo, già negli anni’80, a parlare di comunità virtuali: “Le comunità virtuali sono aggregazioni sociali che emergono dalla rete quando un certo numero di persone porta avanti delle discussioni pubbliche sufficientemente a lungo, con un certo livello di emozioni umane, tanto da formare dei reticoli di relazioni sociali personali nel ciberspazio[5] H. Reinghold è fin da subito un sostenitore delle potenzialità offerte dai nuovi strumenti tecnologici mettendo in evidenza come le nostre identità virtuali ci possono liberare dai limiti del mondo reale per dare vita a comunità transculturali ed eliminare le distanze tra centri e periferie. In riflessioni più recenti sembra, tuttavia, aver maturato una visione più critica in cui accanto al potere di emancipazione degli individui vede i rischi di una società che non sà più confrontarsi con la diversità e che in definitiva cerca il rispecchiamento e la conferma perdendo la capacità di evolversi ed apprendere.

È molto raro nella vita di tutti i giorni, anche se non impossibile, che noi facciamo delle scelte a prescindere dal nostro gruppo e dal nostro ruolo sociale, spesso scegliamo per come pensiamo di dover scegliere, con il solo fine di soddisfare l’aspettativa che si è

Almeno da questo punto di vista possiamo dire che quando Leon Festinger affermava che “La tendenza a confrontarsi con altre persone diminuisce in modo direttamente proporzionale all’aumentare della differenza tra proprie opinioni e abilità e quelle altrui[6] evidenziava una dinamica non ancora smentita e che anzi mostra tutto il suo potenziale di rischio nell’era digitale.

A queste critiche possiamo aggiungere ancora un’aggravante legata ai meccanismi di indicizzazione e di ricerca nella rete, per cui siamo costantemente forzati a rappresentarci con parole chiave costringendo il nostro universo pulsionale in una griglia alfabetica di indicizzazione che fissa i nostri gusti in una tassonomia delle tendenze e degli orientamenti che, seppur variegata, difficilmente rappresenta la complessità delle identità umane e soprattutto le registra, oltre che nella forma, nel tempo, in quanto ciò che vive su internet, al di là della volatilità apparente, si replica nel tempo e sopravvive al mutare delle nostre inclinazioni.

Raffaele Simone nel recente libro Presi nella rete per descrive questo fenomeno, già iniziato con l’affermarsi della scrittura ma esponenzialmente più significativo con la manipolabilità del dato digitale, si richiama ad Elizabeth L. Eisestein[7].   “Eisenstein, tra le innovazioni che la stampa produsse nella conoscenza, elenca le seguenti: si modificarono gli strumenti della memoria (per esempio non furono più necessarie rime e cadenze per ricordare formule e ricette), si sviluppò l’uso delle immagini stampate a fini mnemonici ed esplicativi, e quindi si rese possibile la produzione di trattati tecnici (nei quali si potevano usare numeri, diagrammi e mappe) per la diffusione di conoscenze pratiche; si diffuse la tradizione dell’ordinamento e della classificazione dei dati e delle informazioni, favorendo così la nascita di risorse pratiche come schedari, indici analitici, repertori e simili[8]

Questo processo di indicizzazione è quindi il prodotto di una evoluzione ancora più vistosa e vasta e che riguarda la superficialità con cui ci appropriamo delle informazioni provenienti dalla rete proprio per la loro continua disponibilità.

Sia Nicholas Carr che Raffaele Simone citano a proposito lo stesso passo del Fedro di Platone: “Platone racconta il mito secondo cui il dio Theuth inventò i numeri, il calcolo, la geometria, l’astronomia, il gioco del tavoliere e dei dadi, e, infine, anche la scrittura, e poi andò da Thamus, re d’Egitto, per annunciargli che bisognava insegnare al suo popolo tutte queste cose. In particolare la scrittura, che secondo Theuth, sarebbe stata ‘il farmaco della memoria e della sapienza’, perché, secondo il dio, essa era in grado di alleggerire la memoria degli uomini, che fino a quel momento avevano dovuto ritenere a mente le conoscenze, e di favorire lo sviluppo del sapere.

Thamus reagisce bruscamente alla proposta di Theuth, riflettendo in ciò la posizione di Platone stesso. La scrittura non sarà il farmaco della memoria, dice, ma servirà solo a favorire l’oblio e la presunzione delle persone che l’avranno imparata, perché: ‘della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità; divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, essi crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà non le sapranno'(275 A-B) La ragione di ciò e  che gli uomini ‘fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se stessi. (274 A)[9]  Per Simone Platone descrisse quello che in forma ben più netta si sta manifestando nel rapporto tra la noosfera (sfera del pensiero umano) e la mediasfera (sfera dei mezzi di comunicazione) “Suggerendo che non si può introdurre un nuovo medium che abbia a che fare con la mente senza produrre degli effetti sulla mente stessa[10]

La conclusione più immediata ai fini di questo breve scritto è che l’accesso distribuito e in tempo reale a quantità di dati fino ad oggi inimmaginabili crea enormi problemi di organizzazione, ordinamento, interpretazione del dato stesso e rende impossibile dominare in forma sintetica la conoscenza così prodotta. Il sapere diventa via via più piatto e spersonalizzato, l’analisi inevitabilmente statistica, aprendo alle tecniche cosiddette dei big data.

Abbiamo sempre più bisogno di bussole che ci aiutino ad orientarci e queste non possiamo che ritrovarle nel riconoscimento del valore sociale della conoscenza e quindi nel rapporto umano e nella costruzione di reti relazionali e di comunità.

Violeta Raileanu
psicologa e psicodrammatista

[1] Moreno, J.L., Principi di sociometria di psicoterapia di gruppo e sociodramma, Milano, Etas Kompass, 1964.

[2] Carr N., The Shallow, What Internet is doing to our brain, W.W. Norton & Company inc. N.Y. 2010

[3] Ong W. J.,  Orality and Literacy, Routledge, London 1991, pagg. 67-68 citato da Carr N.

[4] Festinger, Leon, «Informal social communication.», Psychological Review, vol. 57, fasc. 5, 1950, pp. 271–282.

[5] Howard Rheingold, Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio. Spearling & Kupfer Editori, Milano 1994.

[6] Festinger, Leon, «A theory of social comparison processes», Human relations, vol. 7, fasc. 2, 1954, pp. 117–140

[7] Eisestein E.L, Le rivoluzioni del libro, L’invenzione della stampa e la nascita dell’età  moderna, Società Editrice il Mulino, Bologna 1997

[8] Raffaele Simone, Presi nella rete, La mente ai tempi del web, Garzanti Libri S.p.a., Milano 2012

[9] Raffaele Simone, Presi nella rete, La mente ai tempi del web, Garzanti Libri S.p.a., Milano 2012  pag.151/573

[10] Ibid

Resistenza al cambiamento in una prospettiva antropologica

La resistenza al cambiamento come agente opposto all’ adattabilità è altrettanto fondamentale allo sviluppo e alla definizione dell’essere umano

In cosa consiste: definizione e storia.

Con un passaggio logico ed è cruciale definirlo bene, possiamo estendere la necessità di stabilità, continuità e coerenza dell’esperienza come fondamentali ingredienti del funzionamento del nostro universo mentale.

Il riconoscimento di uno spazio dell’io (Sé?) passa attraverso la speculare individuazione di ciò che è altro da sé, ovvero il mondo esterno delle cose e degli altri.

Apparentemente tutto ciò è piuttosto istintivo ma non dobbiamo lasciarci ingannare da come ci siamo abituati a guardare il mondo attraverso i secoli e di come il gruppo sociale ci forma, educa, condiziona a partire dai nostri primi anni di vita.

In realtà noi siamo costantemente minacciati da stati, che abbiamo imparato a definire come patologici, come le allucinazioni, le ossessioni, le manie, lo stesso amore che ci fanno perdere i confini tra noi e il mondo in cui siamo immersi.

Le teorie recenti della mente estesa che riprendono su basi più scientifiche fenomeni conosciuti già nell’antichità dimostrano che i confini tra il nostro ambito individuale e uno spazio più allargato sono assai labili.

Eros e Magia versus Leibniz

Fare leva sul mondo esterno ci aiuta a ragionare in modo efficace  e genera un contatto con il mondo esterno che àncora i nostri pensieri alla realtà.

Questo è il passaggio, a mio modo di vedere, più delicato. Il mondo delle cose e degli altri è a noi estraneo ed inconoscibile (Aureolo Kant). Il Noumeno di Kant e in quanto tale è un’astrazione e per conoscerlo e riconoscerlo abbiamo bisogno di contaminarlo con un senso, attribuirgli significati.

I significati non appartengono alle cose ma siamo noi ad appiccicarli come dei post-it dando corpo ai concetti e al contempo abitando (Heidegger) lo spazio che ci circonda.

Questo è il primo passo di un meccanismo culturale e comunicativo. I significati trovano un significante in un oggetto, in un suono ripetibile, in una situazione stabile che possiamo richiamare alla mente. La comunicabilità è quindi il prodotto della necessità di stabilizzare di fissare il flusso di coscienza rendendone le componenti discrete e fissandole in concetti duraturi e memorizzabili.

Si apre un universo completamente nuovo in cui rispecchiare il proprio mondo mentale negli altri ma anche innumerevoli nuovi problemi, una comunicazione non più esclusivamente empatica richiede accordi molto precisi sui codici linguistici e quindi di un’autorità terza che li custodisca. La stabilità, la coerenza, la resistenza al cambiamento divengono dei mandati sociali e financo magici o religiosi.

Ecco dunque che le cose si animano di poteri e impersonificano divinità o spiriti. Nascono le religioni animiste per cui quell’albero non è più uguale a tutti gli altri e non è solo la vecchia quercia ma diventa albero magico. Lo spazio diventa luogo ed assume una gerarchia che ha una origine ed una estensione. All’albero si affianca il tempio ed altri manufatti dell’uomo ma anche le frecce per cacciare o i fenomeni naturali, ogni cosa che assume un significato ha necessità di un custode.

Il suono, il segno, il simbolo diventano importanti fattori di riconoscimento gruppale e anche di divisione e di scontro per difendere l’unità del gruppo. I riti collettivi, momenti fondanti di riconoscimento della dimensione collettiva del nostro campionario di segni. Non a caso chi adora altri dei utilizza altri codici spesso segreti che disconoscono quelli ufficiali, massonerie, e riti satanici.

Il carnevale, tra i riti ancora praticati, è forse quello più antico: nello scherzo, nell’inversione dei ruoli, nella rottura delle regole si mette in scena una dimensione altra fuori dai canoni. Il carnevale è generativo, liberatorio, riconosce una spazio alla dimensione psichica più inconfessabile ma è anche pauroso perché è lo spazio della follia dell’allucinazione (voodoo) del mondo indistinto e deve essere ricacciato negli inferi, bruciato il mercoledì delle ceneri.

 

Violeta Raileanu, psicologa e psicodrammatista